Pubblico volentieri, per tutti coloro che seguono il mio blog, l’articolo che ho appena scritto per Rocca inserendomi nella discussione sull’abolizione sperimentale dei voti in un noto liceo romano.
La recente discussione sui media riguardo alla decisione del Liceo Morgagni di Roma di avviare una sperimentazione basata sull’eliminazione dei cosiddetti “voti” è stata sicuramente appassionata e interessante. Detto questo, ha palesato non di meno da un lato quella che amo definire la vera e propria intelligenza 2.0 verso cui il mondo attuale pare dirigersi, e dall’altro come in fondo si sappia molto poco di ciò che riguarda praticamente ogni famiglia e un mondo – come quello dei docenti scolastici – che coinvolge circa 840.000 persone, ovvero una persona su 33 che attualmente lavora in Italia.
Per intelligenza 2.0 alludo al fatto che la struttura stessa di Internet favorisce a tal punto le polarizzazioni da rendere difficile la comprensione della complessità dei problemi e da fare poco spazio alla ricerca delle ragioni più profonde e di possibili sintesi tra posizioni apparentemente contrastanti. Ma non è a questo che è dedicato il mio contributo.
Vorrei invece affrontare il tema cruciale della valutazione e del giudizio, che sono stati al centro prima della mia carriera di insegnante e di dirigente scolastico, e quindi del mio coinvolgimento professionale nella creazione di nuovi strumenti didattici per migliorare l’apprendimento, basati non a caso su una comprensione scientifica della valutazione.
Giudicare è un’attività umana fondamentale, per noi stessi e per gli altri. Formulare dentro di sé, o esprimere, un giudizio di valore, di merito, di approvazione o disapprovazione su qualcosa è importante per trovare motivazioni, assumere decisioni, esercitare un ruolo attivo nella vita e nella società, interagire con la realtà nella speranza di adeguarvisi e forse anche di cambiarla.
In ambito educativo, il giudizio e la valutazione sono tra le più elevate e importanti attività cognitive, superati nella gerarchia delle cosiddette “tassonomie” degli obiettivi educativi solamente dalla capacità di creare, di dar luogo all’inedito.
La capacità di giudicare e il suo significato non riguardano però solo gli studenti, ma in primo luogo coloro che dovrebbero saperli guidare all’apprendimento di abilità e competenze nel campo della valutazione e del giudizio di ciò che li circonda, ovverosia i docenti stessi. E qui si entra in un ambito dove dominano tradizioni inveterate e cliché, e dove coloro che sono incaricati di valutare sono i primi a non ricevere una formazione adeguata alla valutazione dell’apprendimento altrui. Anzi, soprattutto nel caso dei docenti della scuola secondaria di ogni ordine e grado, la formazione seria a un tale compito e competenza pedagogici manca pressoché del tutto ed è dunque lasciata alla buona volontà dei singoli.
La questione fondamentale, per giudicare coloro che apprendono, è da un punto di vista scientifico e pedagogico passare dall’istinto e dall’applicazione per abitudine di metodologie apprese unicamente tramite la propria esperienza personale, alla presa d’atto che la valutazione è un processo poliedrico, dotato di criteri che sono oggi più che mai oggetto di studi seri e approfonditi.
Il primo passo in tale direzione è capire che il giudizio che un docente esprime è orientato in primo luogo all’apprendimento, che a sua volta non è una realtà monolitica. In termini tecnici si parla solitamente di almeno tre forme di apprendimento: formale, non formale e informale.
Partiamo dal cosiddetto apprendimento informale: con questo si allude a tutto ciò che si apprende mediante le esperienze della vita, mentre si lavora, quando si è in famiglia, nel tempo libero, su iniziativa propria. È una forma di apprendimento non programmato da altri per noi, non prevedibile, non strutturato e che non dà luogo a risultati certificati o certificabili. Ciò nonostante è una forma molto importante, una sorta di basso continuo dell’apprendimento, che è sempre prezioso stimolare, analizzare e aiutare a valutare, a casa come a scuola.
Con l’apprendimento non formale si entra nel campo delle attività programmate da altri per favorire il nostro sviluppo cognitivo e di abilità e competenze significative. In tale ambito ricadono tante cose, dalle gite scolastiche alle attività ludiche che si propongono fini pedagogici. Lo si definisce non formale in quanto pur essendo “provocato” da esperienze anche ben ponderate proposte dagli educatori, non è soggetto alla definizione di obiettivi di apprendimento rigorosi, e soprattutto a una loro misurazione.
Quando alle esperienze proposte si fa corrispondere una definizione precisa e rigorosa di obiettivi, a cui si allineano strumenti di verifica idonei ad accertare l’acquisizione delle relative competenze, si entra nel campo del cosiddetto apprendimento formale.
I sistemi educativi moderni si sono concentrati in maniera prevalente su quest’ultima forma di apprendimento, creando curricoli, programmi ministeriali, definizioni il più possibile dettagliate delle cose da fare e da valutare, basate sull’idea – per alcuni versi discutibile nonché pericolosamente omologante e frustrante per i singoli – di uno “studente medio” da formare onde prepararlo alla vita adulta nella società. Oggi, grazie anche al continuo e rapido mutare delle competenze necessarie in campo lavorativo, per fortuna in tutti i sistemi scolastici si sta lentamente prendendo coscienza dell’importanza decisiva dell’apprendimento non formale e di quello informale per l’acquisizione della competenza più importante per il futuro: imparare a imparare.
A prescindere dalla tipologia dell’apprendimento, però, chi guida le nostre ragazze e i nostri ragazzi a imparare è chiamato – sia dalle istituzioni, sia dalla propria responsabilità professionale – a valutare tale apprendimento. Ma quali sono le forme della valutazione, e che senso hanno?
Nella mente di pressoché ogni genitore, e purtroppo ancora della stragrande maggioranza dei docenti della scuola secondaria, c’è solo la valutazione sommativa. Detto altrimenti: il voto dato mediante una “verifica” al termine di una sezione del programma o al termine dell’anno scolastico.
Per quanto un “voto” possa essere assegnato mediante l’applicazione di griglie di valutazione ben redatte e articolate, e malgrado possa essere comunicato in maniera tale da fornire elementi informativi molto più ampi di una semplice collocazione in un “gruppo di merito” di una studentessa o uno studente, la valutazione sommativa ha alcuni difetti importanti.
Innanzitutto, per definizione, si tratta di una valutazione “finale”, al termine di qualcosa (da cui la definizione di “sommativa”), che in qualche misura comunica questo messaggio: “Fin qui ti ha portato la scuola, ora sta a te andare oltre”. Il tentativo di descrivere dove sei giunto o giunta non è compiuto per far sì che la scuola stessa possa fornirti gli elementi necessari ad acquisire piena padronanza delle competenze che ha meticolosamente descritto nei propri protocolli e programmi. E questo vale anche per chi raggiunge voti “sufficienti” o “alti”: che fare infatti per la rimanente porzione di argomenti o competenze che anche chi appartiene a tale categoria non ha ancora acquisito del tutto? Tutto è lasciato alla volontà o alle capacità di varia natura delle famiglie, in un dopo che alimenta un mercato dai tratti tutt’altro che trasparenti (nonché fortemente discriminanti) di tutori e lezioni private.
In secondo luogo, invece di favorire l’inclusione derivante da un serio tentativo di assicurare che tutti acquisiscano le conoscenze, abilità e competenze ritenute necessarie, il voto tende semplicemente a dividere in “classi di merito” gli studenti, consolidando vere o presunte differenze e capacità cognitive, e trasformandole in etichette. Così facendo, genera spesso meccanismi psicologici di studio finalizzato al voto a cui – lo dimostrano parecchi studi scientifici – non corrisponde una migliore qualità dell’apprendimento. Senza dimenticare come vi siano non pochi studenti che vivono voti e verifiche come uno stress che, oltre a far odiare loro la scuola, fa sì che “dimostrino” esteriormente molto meno di quello che valgono o hanno acquisito realmente.
Fatto più preoccupante, su cui molti docenti si rifiutano di aprire gli occhi, è che il voto può essere usato facilmente come un meccanismo di potere, soprattutto da parte di chi non sa gestire la classe e far appassionare in altri modi le proprie studentesse e i propri studenti all’apprendimento, e ricorre al voto piuttosto che cercare di colmare le proprie lacune pedagogiche mediante studio e ulteriore formazione.
Giunti a questo punto della lettura, non vorrei che i lettori pensassero che io sia semplicemente contrario ai voti e alla valutazione sommativa tout court. Non vi è infatti dubbio che vi siano occasioni, nella vita, in cui è necessario selezionare le persone per motivi specifici, e che per fare questo sia anche necessario – soprattutto in presenza di un numero di candidati elevato – operare una valutazione “istantanea” che trasformi in valori numerici l’insieme globale delle competenze richieste per tale occasione. Di conseguenza, la scuola dovrebbe saper preparare anche a queste situazioni, soprattutto aiutando gli studenti a gestire lo stress e a dare il meglio di sé stessi in ogni circostanza. Esistono tuttavia esperimenti molto seri che provano come anche a tal fine il modo migliore non sia necessariamente abituare studentesse e studenti a un uso più o meno frequente dei voti e della valutazione sommativa.
Nel Regno Unito, per citare un caso significativo a cui ho avuto indirettamente il piacere di collaborare, ci sono ad esempio le Thomas’s London Day Schools, scuole a tempo pieno in cui chi le frequenta vive tempi di apprendimento sia formale sia non formale. Tra i molti tratti che balzano all’occhio nella loro impostazione pedagogica ve ne sono almeno due di grande interesse, decisi da alcuni anni a questa parte: da un lato non esistono i compiti a casa, nella convinzione che per evitare discriminazioni dovute alle diverse condizioni familiari sia fondamentale garantire il sostegno di docenti nei momenti di esercizio e di pratica anche personali di studenti e studentesse; dall’altro non esiste valutazione sommativa.
Il risultato di tale esperimento? Feedback molto più positivi rispetto a quelli di altre scuole, sia dei genitori sia degli alunni, che si sentono felici e stimolati da un simile ambiente educativo. Ma anche – fatto da sottolineare con forza – un miglioramento rispetto al passato delle performance degli studenti agli esami di stato (i GCSE) posti alla fine della scuola dell’obbligo.
Il segreto di queste scuole? È per lo meno duplice, e si basa tra l’altro sulle ricerche pedagogiche compiute negli anni ’80 da Benjamin Bloom, psicologo dell’educazione americano che ha contribuito alla classificazione degli obiettivi educativi e alla teoria del mastery learning (apprendimento per padronanza): compiere costantemente valutazione formativa e assicurare un supporto personalizzato (anche tramite sofisticati strumenti di intelligenza artificiale per aiutare i docenti a seguire meglio la complessità delle loro classi) a tutti coloro che a seguito di tale valutazione mostrano difficoltà di qualsiasi genere.
La vera questione pedagogica, insomma, è radicata sì nella valutazione, ma in quella formativa: utilizzare ogni strumento possibile – frequenti quiz e domande senza voto, valutazione tra pari, progetti collettivi, solo per citarne alcuni – per aiutare i docenti a comporre un quadro reale della situazione di ogni loro studente, al fine di aiutarlo costantemente a colmare le proprie lacune e a migliorare le proprie strategie di apprendimento.
Perciò il problema non è voti sì o voti no, ma riformare radicalmente sia i meccanismi di valutazione, ponendo al centro quella formativa, sia i cammini di formazione degli insegnanti, assicurando che abbiano veramente gli strumenti per far crescere l’apprendimento di ogni singolo studente, nella sua unicità, diversità e ricchezza.
Grazie per l’articolo. Sto conducendo ricerche sugli effetti dei vari tipi di feedback compreso il voto. Per ora ho risultati ricavati nei contesti universitari, ma sto lavorando a trarne dati nella scuola.
I primi risultati confermano quanto da lei detto rispetto all’impatto del voto sull’apprendimento!
Grazie! Personalmente mi appassiona soprattutto promuovere la pratica della valutazione formativa, nonché l’utilizzo degli strumenti molto preziosi che la tecnologia mette a disposizione per fare valutazione formativa e dunque per personalizzare sia l’apprendimento sia l’insegnamento.