L’unico modo per affrontare i corto circuiti del pensiero, senza semplificazioni, dissimulazioni o amarezze di qualsiasi sorta, è accettare che vengano pienamente a galla. Quanto state per leggere è un tentativo di toccare argomenti delicatissimi per la coscienza di moltissime persone che mi stanno a cuore – tra cui molte e molti di voi –  ma che proprio per questo vanno prima o poi affrontati, rischiando analisi e considerazioni, sia per amore del pensiero, sia per amore di coloro con cui percorriamo da moltissimi anni il viaggio della vita, a costo di turbarli e suscitare un senso di ribellione e di contrarietà.

Fin da quando ero all’università mi sono interrogato a fondo su come fosse possibile coniugare cattolicesimo e democrazia (liberale). La parentesi aggiunta alla qualifica della democrazia in senso liberale è sempre stata, ai miei occhi, una sorta di cartina di tornasole del problema di fondo. Bisogna infatti riconoscere che “democrazia” è un concetto univoco e privo di ambiguità solo per chi accetta le semplificazioni del discorso politico odierno, portate avanti in larga misura da un sistema di informazione pubblico (e dai suoi attori dominanti) sempre meno incline al pensiero critico e alla riflessione controcorrente, e sempre più tentato di semplificare e assolutizzare piccole o mezze verità. Fin dai tempi di Aristotele, infatti, la filosofia politica ha sviscerato l’argomento dell’espressione della volontà del popolo in molti modi, ammonendo a più riprese sulle molte possibili sfumature che un sistema “democratico” può assumere.

Lo stesso Aristotele, nella sua categorizzazione dei sistemi politici, colloca la democrazia (assieme all’oligarchia e alla tirannide) sul versante dei regimi “negativi”, perché non hanno in vista il bene di tutti i cittadini, mentre definisce sistemi positivi la monarchia, l’aristocrazia e quella che chiama “politeia” – ovverosia un sistema democratico in cui il popolo esercita il potere (a differenza di quanto avviene nella democrazia) non a vantaggio della sola maggioranza, ma dell’intero corpo sociale. Per onestà intellettuale, va ricordato che il grande filosofo greco, all’interno dei regimi “positivi” appena citati, stabilisce una sorta di scala di valori, in cui sul gradino più alto si trova la politeia, condizione a cui ogni società dovrebbe tendere in linea teorica.

Altri, in epoca moderna (come ad esempio Dahl e Schumpeter)  hanno parlato dell’importante differenza tra democrazie “procedurali” o “formali” – cioè legate alla pura esistenza sul piano teorico, del diritto, di possibilità di partecipazione e decisione per tutte e per tutti – e democrazie “sostanziali” – ovverosia modalità di partecipazione di tutti finalizzata alla realizzazione effettiva, concreta e misurabile del bene comune.

Non intendo proporre una completa rassegna delle definizioni e delle analisi della democrazia proposte da secoli di scienza della politica, ovviamente. Non di meno, mi pare importante sottolineare come sia tipico dell’epoca moderna, dal pensiero illuministico in poi, ritenere che fondamento comune di ogni teoria democratica rimanga comunque la pari dignità di ogni essere umano, unitamente al suo diritto a partecipare alla costruzione della polis senza alcuna gerarchia predeterminata che potrebbe, di fatto, inficiare l’uguaglianza di fondo riconosciuta a tutte, tutti e a ciascuno.

Come può porsi il cattolicesimo di fronte a una visione di tal genere? Il cattolicesimo è una forma di cristianesimo – ce ne sono davvero tante, e tante ne sono esistite fin dai giorni in cui Gesù di Nazareth iniziò la sua predicazione lungo le strade della Galilea: i cattolici, soprattutto in paesi come l’Italia, a volte tendono a dimenticarlo – che riconosce un ruolo di mediazione decisivo alla “chiesa” oltre che alla “coscienza” in merito a questioni di fede e di morale. E qui risiede il nodo fondamentale.

In qualsiasi modo si cerchi di affrontare la questione, l’appartenenza alla chiesa cattolica comporta sempre il dovere di tenere debito conto non solo di quanto il singolo credente ritiene di dover pensare o fare in base alla propria comprensione personale di Gesù, del suo vangelo e della vita in generale, ma anche di ciò che – non importa in quale forma – la chiesa in quanto istituzione di “diritto divino” ritiene vincolante e “vero”. Di conseguenza, un cattolico non può mai eliminare del tutto il possibile conflitto tra la propria convinzione democratica e la propria fede religiosa.

Forse è proprio per questo che la maggioranza dei cattolici tende a ritrovarsi maggiormente a proprio agio in regimi in cui al reale riconoscimento della libertà e della libera iniziativa di ciascuno, si antepone la realizzazione di un bene comune imposto da (vere o presunte) élite, come nel caso dei regimi conservatori o di quelli socialisti. In fondo, due estremi apparentemente lontani come la Polonia odierna o l’America Latina della teologia della liberazione hanno proprio questo in comune: la convinzione che ci sia un bene più grande (nel passato nel caso dei conservatori, nel futuro in quello dei progressisti) per il quale la libertà individuale possa essere messa in secondo piano, almeno temporaneamente o in alcune circostanze.

Conservatorismo e socialismo sono perciò connaturali al cattolicesimo, distinguendosi solo nella collocazione del mondo ideale nel passato o nel futuro. Molto meno, però, lo sono il liberalismo o la socialdemocrazia, perché in entrambi i casi, il principio della piena uguaglianza di ciascuno nel processo decisionale è sempre inalienabile. Personalmente lo ritengo un grande problema, per diverse ragioni su cui mi esprimerò in un altro scritto dedicato alle attuali tendenze politiche delle società occidentali.

Che fare, allora? Abbandonare uno dei due poli del conflitto (la convinzione democratica o quella cattolica)? Personalmente ho optato per un ripensamento del mio cristianesimo compatibile con la mia convinzione democratica di fondo, ma ovviamente non mi permetto di dare indicazioni a nessuno su questioni di una portata così profonda e grande. Non di meno ritengo che esistano altri aspetti soggiacenti alla tensione tra cattolicesimo e democrazia che potrebbero contribuire in maniera molto rilevante a vivere il conflitto tra i due poli in maniera più pacificata per se stessi e produttiva per la società.

Uno dei nodi è trovare modi di vivere il messaggio cristiano senza passare attraverso la lente deformante di alcune tendenze del pensiero di Paolo di Tarso e Agostino di Ippona. Perché la loro convinzione che in qualche misura senza la fede il nostro giudizio e la nostra libertà siano offuscati o addirittura radicalmente compromessi, oltre a essere un elemento di palese conflitto con la convinzione democratica, è ciò che porta costantemente a costruire il discorso politico in termini di lotta contro il male o di ricerca di figure messianiche che dal male possano salvarci. Così facendo, la politica rischia di perdere la sua caratteristica di arte del possibile, di costruzione faticosa con il concorso di tutti di condizioni migliori, e diventa per contro facilmente il terreno in cui sostenere pericolosi percorsi identitari di parte, in cui ciò che conta è il “noi” contro il “loro” piuttosto che la scoperta di un noi veramente inclusivo e onnicomprensivo.

Paolo e Agostino non sono il cristianesimo, sono un cristianesimo, tra molti altri. Conservatorismo e socialismo non sono le uniche modalità di perseguire un bene umano e comune. Ce ne sono altre. La nostra società ha un disperato bisogno di un pensiero liberale che tenga realmente conto della giustizia sociale (sempre meno difesa e sempre meno presente nelle società più ricche e nel mondo intero), e di un pensiero socialdemocratico che coniughi con pari dignità fede nella democrazia e desiderio di giustizia per tutti. Si tratta di due visioni politiche pressoché scomparse nell’Europa e soprattutto nell’Italia di oggi.

Se il cattolicesimo vorrà davvero contribuire all’edificazione di una società migliore, forse è l’ora che la smetta di definirsi “contro” qualcuno (siano essi Berlusconi e le destre di turno, o i sostenitori dei diritti LGBT+ e di altri nuovi diritti) o di ricercare improbabili messia e leader a cui attribuire poteri taumaturgici che, quasi sempre, sono totalmente immaginari (il caso di Draghi è semplicemente esemplare, oltre che drammatico per le mistificazioni e gli obnubilamenti che l’hanno accompagnato).

Il cattolicesimo – specie quello progressista – ha bisogno di molta umiltà. Ha bisogno di desacralizzare la propria visione dell’autorità, sia religiosa sia secolare (come ho scritto a più riprese). Soprattutto, però, ha bisogno di passare realmente dalla fase della “tolleranza” (parola che contiene sempre un elemento di giudizio e di non accettazione) a quella della fiducia reale nella possibilità di costruire assieme a chi ha visioni molto diverse dalla sua. Ha bisogno di scoprire realmente di essere una delle forme possibili assunte dal cristianesimo, non l’unica. Ma soprattutto di capire di essere solo una delle forme possibili di umanesimo, né l’unica né – necessariamente o a priori – la migliore.