Condivido nel mio blog l’articolo comparso nel numero 18/2022 di Rocca.

Ho letto con molto piacere l’articolo di Enzo Bianchi I vescovi italiani e la crisi della fede e l’editoriale del numero 13/2022 di Rocca (L’operazione del granchio) di Mariano Borgognoni, che riprendeva sottolineando il proprio accordo la posizione del fondatore di Bose sulla necessità di salvaguardare quella che potremmo definire la differenza cristiana che scaturisce da un approccio a Gesù di Nazareth all’insegna della fede in lui come risorto e vivente.

Conoscendoli bene, ed essendo loro amico ed estimatore da molti anni, capisco bene le loro ottime intenzioni – che trovo rispettabili e in linea di massima condivisibili – di parlare di identità cristiana con chiarezza, in senso positivo e costruttivo, senza essere contro nessuno ma anzi in favore di un cristianesimo solidale con tutte e con tutti.

Concordo inoltre con il fatto che un cristianesimo aperto, inclusivo, universalmente solidale sia sicuramente perseguibile tramite una fede religiosa incentrata sull’idea che Gesù Cristo, con la sua morte e risurrezione e la sua presenza misteriosa nella storia, attua e semina continuamente, in ogni tempo e luogo, la riconciliazione universale che ha annunciato nei giorni della sua vita terrena.

Dove però sento di dover proporre delle sfumature differenti, se non un vero e proprio disaccordo, è sulla messa in discussione di approcci “altri” a Gesù, non incentrati sulla piena e cosciente accettazione del kerygma cristiano, ovverosia sulla convinzione che siano la morte e risurrezione di Cristo l’unico modo per rendere eloquente, “utile” e autentico il suo messaggio umano e terreno. Detto altrimenti, dubito fortemente che se non si crede esplicitamente nella risurrezione di Gesù e nel fatto che egli sia “vivente” il definirsi cristiani perda senso o sia in qualche misura illegittimo.

Nel Vangelo di Marco si legge:  «Giovanni gli disse: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri”. Ma Gesù disse: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi”» (Mc 9,38-40).

Chi guarisce, riconcilia, ama alla scuola di Gesù, perché ne ha incontrato il messaggio e ne è rimasto affascinato e coinvolto in un modo o nell’altro, non può essere ritenuto a priori né manchevole di qualcosa, né meno degno di ritenersi “cristiano” di chi invece accoglie definizioni e dogmi di fede di portata più ampia. Anche nella prospettiva cattolica ci sono importanti aperture in questa direzione; la Gaudium et Spes afferma ad esempio al §22: «Cristo è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale».

Dal giorno in cui il Nazareno ha terminato la sua vita terrena, le tradizioni a suo riguardo hanno iniziato a generare una serie interminabile di interpretazioni, ognuna delle quali, in misura diversa e proporzioni variabili, è un insieme di fedeltà e tradimento, di trasmissione di un’esperienza originale e sovrapposizione di altre sfumature e visioni della vita. La vera forza del vangelo di Gesù sta appunto nel fatto che in ogni tempo e luogo la tradizione su di lui, per quanto inevitabilmente imprecisa, “inquinata” da rumori di fondo e sovrapposizioni più o meno indebite, è stata capace di ispirare amore, misericordia, riconciliazione e speranza in miliardi di persone.

Nella mia prospettiva di “diversamente cristiano”, non legato ad alcun credo o chiesa, ritengo che nessuno abbia un approccio privilegiato e decisivo a Gesù di Nazareth, e che il suo s/Spirito (sia esso forza divina o più semplicemente ispirazione umana che riecheggia nella storia) possa trasformare le menti e i cuori di qualsiasi donna o uomo che si lasci interpellare dal suo messaggio e dalla sua figura.

Penso dunque che da un lato sia importante sfuggire la superficialità religiosa, che si manifesta oggi in molti discorsi in cui si mescolano facilmente religioni e idee religiose senza studiarle o ascoltarle a fondo e inseguendo discorsi affabulanti e facili cliché, o in quelle tendenze che riducono le esperienze religiose a tecniche per il raggiungimento della “migliore versione di se stessi” o per placare le proprie ansie e angosce esistenziali. In generale, penso sia importante evitare la ripetizione di parole e concetti vuoti o ben poco profondi, proferiti spesso per mancanza di capacità di pensare, nonché esercitare un senso critico di chi li ostenta e proferisce.

Dall’altro lato, però, non credo sia umanamente possibile dimenticare, come insegnano i maestri dell’ermeneutica contemporanea, che una volta che Gesù di Nazareth terminò di parlare e di vivere (senza lasciarci tra l’altro alcuno scritto!), nessun suo interprete può ritenere di possederne la piena comprensione e ogni ermeneutica “gesuana” ha un proprio diritto di cittadinanza, a condizione che 1) si confronti seriamente con le fonti disponibili, per quanto limitate e 2) sia seriamente aperta a ogni domanda o interrogativo umani.

Le comunità cristiane hanno sempre cercato, giustamente, di raccogliere le fonti disponibili (scritte e orali) e di tramandare i gesti essenziali perché fosse possibile “fare memoria” del messaggio evangelico, dove la memoria è un atto performativo e capace di incidere realmente sulle vite e le realtà degli esseri umani e della storia. Per contro, sono anche state tentate sistematicamente di imporre filtri all’esercizio dell’interpretazione e della memoria, come canoni, dogmi e credo di ogni sorta. Così facendo, hanno pensato di creare comunione, ma di fatto hanno dato vita a un’interminabile storia di divisioni e di identità “contro” l’altro più che a beneficio di una riconciliazione universale.

Non fraintendetemi: le chiese continueranno a esistere, indubbiamente, ciascuna custodendo i propri dogmi e canoni di verità e definendosi (in maniera inesorabilmente difensiva) attorno ad essi. Ma il cristianesimo è e resterà sempre un insieme di cristianesimi, molto più ampi di ogni riduzione monolitica della discendenza spirituale di Gesù a un insieme non plurale di visioni sulla vita e su ciò che rende autenticamente umani i nostri sforzi morali e spirituali.

In tale insieme variegato, ben vengano allora tutte e tutti coloro che, pur senza credere nell’esistenza di un Dio o nei dogmi di questa o quella chiesa, costruiscono la loro spiritualità e ed etica laiche ispirandosi (anche o esclusivamente) a Gesù di Nazareth. Io non me la sento di negare loro l’appellativo di cristiani, né penso siano un problema reale per chi invece crede con convinzione nella risurrezione del Nazareno, nel suo essere vivente e nell’esistenza di realtà (come ad esempio la vita dopo la morte) che altri e altre faticano enormemente anche solo a intravedere.

Non credo infatti si possa dimenticare che colui il quale disse: “Chi non è contro di noi, è per noi”, ricordò a beneficio di noi tutti che il criterio ultimo del giudizio finale non sarà il professare la fede in Dio e chiamare Gesù “Signore”, ma dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, accogliere gli stranieri, vestire chi è nudo, visitare chi è malato o in carcere (cf. Mt 25).

A prescindere dalla fonte di ciò che facciamo, infatti, se siamo o meno cristiani emergerà da quello che avremo concretamente realizzato. “Dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7,20). Parafrasando Matteo, al termine della nostra parabola di vita, il giorno in cui chiuderemo gli occhi per sempre (o per aprirli a una nuova vita) si vedrà quanto siamo stati realmente “cristiani”.

Perciò non credo che la differenza cristiana sia indebolita dal riconoscimento dei cristiani e delle cristiane “anonimi”, per dirla con Karl Rahner. Al contrario: sono anche costoro (e spesso molto più dei cristiani “ufficiali”) a contribuire a diffondere con le loro vite la narrazione cristiana, ovverosia un discorso capace di trasformare le vite e le relazioni e di portare pace e consolazione al mondo intero. Io ne conosco molti, e penso si debba solo rendere grazie, a loro e a Dio, per la loro esistenza decisamente “cristiana”, perché umana e umanizzante.