Come si è finiti dalle parole vitali che le madri e i padri del deserto sapevano dare ai loro visitatori alla crisi a tratti profonda dell’accompagnamento spirituale a cui assistiamo oggi, di cui è segno preoccupante l’insorgere di abusi di potere non più circoscrivibili a pochi e sfortunati casi, e che al di là di ciò è provata dalle enormi sofferenze patite da molti/e religiosi/e, nonché dal numero di abbandoni che avvengono oggi nella vita religiosa?

Nella storia del monachesimo di pressoché ogni religione, quando una “via” particolare risulta di particolare successo, attrae molte persone che desiderano percorrerla. È dunque naturale che attorno a chi è in grado di dare una parola di saggezza come quelle dei padri e delle madri del deserto dei primi secoli cristiani – e dei migliori guru e guide di ogni religione e ogni tempo – finiscano per convergere molte persone.

Più si converge attorno a un centro, più cresce la tendenza a formare comunità con livelli più o meno differenziati di appartenenza, e più aumentano le inevitabili frizioni tra esseri umani dalle personalità e dalle esigenze spirituali e materiali differenti. Questo comporta la necessità di governare in una certa misura la convivenza e le interazioni ormai inevitabili tra chi, avvicinandosi al portatore di esperienze e parole spirituali “significative”, si ritrova a vivere rapporti più o meno stretti anche con molte altre persone che non ha realmente scelto.

La questione fondamentale diventa molto presto, in ogni esperienza monastica (anche non formalmente tale), la compaginazione di servizio individuale della parola che guarisce da una parte e governo del gruppo di persone che la parola stessa attrae dall’altra.

Una prima possibile soluzione, rappresentata dalla cosiddetta tradizione idiorritmica (dal greco ídios = individuale e rhythmós = movimento, ritmo, armonia), consiste nel lasciare che l’accompagnamento spirituale rimanga un fatto sostanzialmente individuale, e che quanti hanno una determinata guida condividano tra loro solo un minimo indispensabile di elementi (in ambito religioso, solitamente dei riti liturgici più o meno sporadici e poco di più) e possano vivere o meno da soli o in gruppi (elettivi o non) di modeste dimensioni, regolamentati al massimo da un minimo di valori condivisi.

A partire da Pacomio di Tabennesi (292-348), nel monachesimo cristiano del deserto d’Egitto si decise di ovviare agli inevitabili conflitti umani suscitati dal vivere insieme con molte persone diverse istituendo una vita comunitaria intensa ed esigente, per certi versi “militare”, regolata non più dai soli principi religiosi comuni a tutti, ma anche da regole sempre più dettagliate e – soprattutto – dall’obbedienza ai capi del corpo comunitario. Lo stesso modello verrà elogiato e ripreso dalla tradizione benedettina e dall’intero monachesimo occidentale, con pochissime eccezioni. Questa seconda possibile soluzione viene definita normalmente “cenobitismo” (dal greco koinós = comune e bíos = vita).

Il cenobitismo ha consentito indubbiamente all’esperienza monastica di produrre grandi cose. Basti pensare in ambito cristiano a tutto ciò che va da Tabennesi fino a Taizé e Bose, passando per Cluny, Cîteaux e una miriade di altri monasteri. Ma ha faticato molto, in ogni epoca, a evitare i problemi cruciali che ho citato nel mio contributo precedente: l’erezione dell’obbedienza a un’autorità umana a valore fondamentale non solo per la convivenza ma anche per ragioni “spirituali”, e la sovrapposizione tra le funzioni dell’accompagnatore spirituale individuale e quelle della guida “politica” comunitaria. Il tutto aggravato dall’indebita sacralizzazione dell’autorità religiosa tipica di molte chiese.

L’idiorritmia, pur non garantendo lo stesso genere di “successo” e soprattutto di continuità del cenobitismo, è rimasta in molte tradizioni monastiche, sia cristiane sia di altre religioni, una via molto praticata. Per sua natura è ovviamente maggiormente esposta a oscillazioni, nonché alla possibilità di fiorire attorno a guide spirituali non solo e non tanto stravaganti, quanto addirittura deleterie per lo sviluppo personale di quanti vi si affidano, dato che la guida spirituale tende a diventare la regola vivente pressoché assoluta.

Ma oltre a quanto provocato dalle questioni sollevate da questa duplice possibilità individuata dal monachesimo tradizionale, alla situazione odierna nel cristianesimo si è giunti anche (e per certi versi soprattutto) a motivo di ulteriori elementi storici, in primis la trasformazione della parola che attiva una libera trasformazione in cammini di vera e propria “direzione spirituale”.

Già nel tardo medioevo si erano manifestate forti insofferenze all’interno del mondo cristiano rispetto alla tendenza da parte dell’autorità ecclesiale a uniformare le esperienze e a favorire le tipologie di vita religiosa maggiormente controllabili da parte dell’autorità stessa. Fenomeni come il beghinaggio, il misticismo, la devotio moderna, sono reazioni significative all’enfasi su comunità e ortodossia dottrinale tipiche del periodo medievale.

Le beghine si ribellarono all’unica possibilità concessa alle donne (il cenobitismo sotto il “patronato” del mondo maschile e clericale) e iniziarono a vivere ricerche di tipo monastico da sole o in gruppi elettivi molto ristretti, subito visti con diffidenza dalle gerarchie. I mistici e le mistiche cercarono spazi di libertà di espressione in comunità fortemente regolamentate sia dal punto di vista disciplinare che dottrinale. La devotio moderna diede voce al desiderio di moltissime laiche e laici di poter vivere una religiosità personale e realmente trasformante, molto diversa da quella ufficiale, avvertita come troppo razionale, arida e soffocante.

Quando la cristianità occidentale conobbe la frantumazione interna dell’epoca delle varie Riforme del XVI secolo, verrà creata – come ha ricostruito magistralmente Giovanni Filoramo – in seno alla Controriforma cattolica la “direzione spirituale” come strumento primario del controllo delle coscienze e di imposizione di comportamenti codificati.

L’epoca moderna, ponendo al centro la ragione umana e l’autonomia del singolo individuo nella determinazione del proprio cammino spirituale e morale, ha innestato un processo che non può far altro che cozzare fortemente sia con la deriva dell’accompagnamento spirituale in “direzione”, sia con le problematiche di fondo che ho evidenziato fino a questo punto e che riguardano il valore indebito dell’obbedienza all’autorità umana e la sovrapposizione tra governo e accompagnamento spirituale.

Ma la questione degli abusi (sempre possibili per chi esercita un “ministero della parola”, perché la parola è potere) ha un ulteriore, fondamentale aspetto.

Secondo lo psichiatra statunitense Sebastian Zimmermann, infatti, oggi viviamo nell’era del narcisismo e «i narcisisti sono le persone più difficili da trattare: generalmente non vengono mai in cura di loro spontanea volontà; tutti gli altri sono il problema, mai loro». Ma la stragrande maggioranza di coloro che ambiscono a diventare guide spirituale degli altri, oggi come un tempo, sono affetti in misura più o meno accentuata da narcisismo, malgrado si nascondano sotto continue dichiarazioni di umiltà e linguaggi religiosi nobili e altisonanti.

Ci troviamo perciò in una situazione di crisi dell’accompagnamento spirituale che non aveva mai assunto fino ad oggi un volto così chiaro e drammatico. E per il momento, a intervenire sono soprattutto – e giustamente, ma non risolutivamente – le autorità civili. Quelle ecclesiali esitano molto di più, soprattutto nel mondo ortodosso e in quello cattolico, dove la sacralizzazione dell’autorità è il problema fondamentale, e faticano ad avviare analisi serie e approfondite, limitandosi a colpire singoli casi.

Nel prossimo articolo cercherò perciò di suggerire possibili cammini di recupero del potere di guarigione della parola terapeutica dell’antico deserto egiziano.