Non sempre ci è dato di comprendere le ragioni di ciò che accade e che ci tocca nel profondo. Si tratti di eventi improvvisi o di situazioni annunciate da lontano, quando la nostra percezione delle cose viene scossa, al di là delle reazioni più immediate (tutte, in fin dei conti, legittime), pian piano si possono avviare dei processi di approfondimento, di ripensamento, di assunzione delle crisi.
Il grande pedagogista Jean Piaget sosteneva che l’intelligenza e l’apprendimento funzionano mediante continui processi di assimilazione e di accomodamento, in cui l’incontro con ciò che è nuovo, insolito o addirittura in contraddizione con la costruzione globale della nostra comprensione attuale del mondo, fa sì che pian piano possa aver luogo un’assunzione delle nuove “informazioni ricevute”, fino a comporre un quadro nuovo, modificato delle cose.
Ancora più in profondità, mi piace ricorrere a un altro grande filosofo il cui pensiero merita costantemente di essere esplorato e ripreso, per descrivere cosa accade quando la cristalizzazione delle forme di vita e di pensiero si scontra con la forza che muove la vita, con la vita stessa che, per definizione, è continuo movimento e cambiamento. Parlo di Henri Bergson, secondo il quale lo “slancio vitale”, ovverosia quella sorta di motore o anima segreta della vita naturale e spirituale, porta costantemente a spezzare gli angusti confini di ogni cosa definita e a dare vita a un oltre, a nuove forme, tramite un continuo processo di “evoluzione creatrice”.
Quando Bergson parla di queste cose è certamente consapevole del fatto che le forme in cui la vita si cristallizza e che prima o poi verranno superate, possono essere comunque molto significative e durature: delle specie di sintesi necessarie e solide, ma non di meno transitorie, per un arco di tempo che sarà la vita stessa a determinare.
Se siete sopravvissuti fin qui a queste considerazioni apparentemente molto astratte (e forse astruse!), meritate che sveli il tema che mi sta a cuore, e che mi ha portato gradualmente non solo a riflettere su situazioni contingenti e che pure mi riguardavano molto da vicino, ma addirittura ad allargare l’orizzonte fino a progettare nuove piste di ricerca (e un libro in cui sintetizzarne almeno una parte). La forma di vita che normalmente definiamo in vari modi come monachesimo, vita religiosa, vita consacrata, indubbiamente e per molti aspetti è in crisi; ma è altresì in via di sparizione e sarà superata, come tante altre cristallizzazioni, tutte transitorie, dell’evoluzione umana e sociale avvenute lungo la storia del genere umano?
Sicuramente molti di voi hanno iniziato a interrogarsi in anni assai recenti riguardo a questi temi, che prima venivano sollevati solo da uno sparuto drappello di commentatori lungimiranti, sistematicamente inascoltati all’interno di molte chiese. Uno stimolo in tal senso è giunto ad esempio, ne sono certo, dal continuo calo, da almeno sette anni a questa parte, dei religiosi e delle religiose cattolici in tutto il mondo (e non più nella sola Europa o in Italia, dove tale calo è in atto ormai da lungo tempo e con dimensioni decisamente impressionanti).
Un dato che ha tuttavia suscitato ulteriori riflessioni e per certi versi sconvolto un numero sempre maggiore di persone è stato l’emergere di una serie notevole di crisi e di episodi e comportamenti poco chiari o addirittura disdicevoli in seno a molte comunità e movimenti religiosi, anche di natura e matrice ideologica molto diversa. Alcune di tali comunità, come L’Arche o Bose, erano sicuramente ritenute da moltissimi dei veri e propri baluardi di una vita religiosa e comunitaria sana ed evangelica.
Le risposte date fino ad ora al palesarsi di questi fenomeni sono state, a mio modesto parere, largamente insufficienti, per diversi motivi.
Sullo sfondo, e nel lungo periodo, come ho sottolineato nelle analisi del mio libro sulla comunità di Bose, non ha giovato la relativa debolezza della teologia contemporanea della vita religiosa, già emersa nell’impalcatura insufficiente, sia quanto all’analisi sia riguardo al pensiero, del Decreto sul rinnovamento della vita religiosa promulgato dal Vaticano II, la Perfectae Caritatis.
L’emergere di non pochi problemi nelle comunità di “consacrati” ha inoltre dovuto scontare la confusione tra comunità e movimenti di varia natura, soprattutto alla luce del notevolissimo sostegno dato ai secondi durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, anche laddove – come sapevano in molti – la gestione dei rapporti interni era, per usare un eufemismo, “poco trasparente”. Ciò ha portato da una parte a un desiderio di rivincita nei confronti di tali movimenti, e dall’altra a un’identificazione estremamente semplicistica dei problemi delle forme di vita religiose comunitarie sotto la sola categoria, tutta da chiarire, degli “abusi” (peraltro di certo largamente presenti). Non ha inoltre giovato all’approfondimento la tendenza della rete a polarizzare e appiattire le posizioni, ancor più in ambito religioso, dove la radicalizzazione è già di per sé all’ordine del giorno.
A livello di chiese “istituzionali” (e di larga parte dell’intellighenzia cattolica, specie in Italia, che negli ultimi lustri non ha certo brillato per coraggio e per capacità di andare oltre i clichés consolidati o di dissentire dalle gerarchie ecclesiastiche), il dibattito è stato a lungo ridotto a un problema di pastorale vocazionale e di tentativi più o meno astratti di “capire i giovani di oggi”, senza mettere in alcun modo in discussione i presupposti delle forme di vita religiosa attualmente vigenti.
Laddove il tema dei problemi in seno alle comunità religiose è stato affrontato, ciò è avvenuto spesso distinguendo tra “comunità tradizionali” – in cui o certi problemi non esisterebbero, o che che per lo meno sarebbero dotate degli strumenti necessari per affrontarli e risolverli – e “nuove comunità” – per lo più di natura “carismatica” e all’insegna dell’improvvisazione e del leaderismo.
Così facendo, al di là di generalizzazioni molto discutibili e di desideri quasi infantili (o di comodo) di difendere a tutti i costi l’istituzione, si è finito per perdere di vista problemi profondi e reali che invece chi ha vissuto nella vita religiosa di ogni tipo, sia di antica sia di più recente tradizione, sa essere ampiamente presenti e radicati probabilmente in dimensioni strutturali e filosofico-religiose che vanno fatte emergere e analizzate con onestà. In gioco, infatti, non è solo e non tanto il futuro della testimonianza cristiana o religiosa di determinate forme di vita, ma la capacità che esse hanno di consentire lo sviluppo al loro interno di personalità mature, adulte, realizzate, senza decurtazioni di alcun genere della loro umanità. Ed è un fatto di enorme importanza, anche “religiosa”.
Eccomi allora, immodestamente ma in maniera convinta, a proporre di “riprendere altrimenti” la vita religiosa, di ripensarla con onestà e profondità, per capire se lo slancio vitale che solo è in grado in ultima istanza di produrre senso e dare luogo a modalità di vita non soffocanti e aperte, ci porterà semplicemente a rivedere le forme di vita religiosa che abbiamo conosciuto per secoli (o in alcuni casi per oltre un millennio), o se invece ci indicherà qualcosa di nuovo, conforme alla traiettoria di senso cristiana iniziata duemila anni fa e che chiamiamo vangelo, ma che richiede declinazioni differenti, un’evoluzione creatrice.
Per fare questo penso sia importante interrogarsi su quale sia il nucleo da salvaguardare e riprendere altrimenti di ogni forma di vita religiosa, per poi affrontare criticamente ciascuno degli elementi accessori che pure l’hanno resa riconoscibile nei secoli, fino ai nostri giorni.
Dal punto di vista metodologico, penso perciò che si debbano formulare due ipotesi fondamentali.
La prima è che alle radici di ogni forma di vita religiosa o consacrata vi sia una ricerca “monastica”, nel senso di un desiderio di plasmare e sviluppare la propria vita disciplinandola a partire da valori ispiratori. Come ha suggerito Selene Zorzi in una sua definizione lapidaria in occasione di un sondaggio preliminare che ho lanciato sulla mia pagina pubblica di Facebook, il monachesimo è in radice un desiderio di “dare forma alla vita” più che una specifica “forma di vita”. Detto altrimenti, il monachesimo alla radice della ricerca della vita religiosa è una “disciplina della spiritualità”, che come tale si basa soprattutto su principi (che non sono necessariamente “universali”, ma possono essere specifici di determinate culture o religioni) e su metodi e tecniche (che invece possono talvolta trascendere i confini delle ideologie e delle culture) spesso risalenti a periodi molto antichi della sapienza umana.
La seconda ipotesi, peraltro corroborata dalla storia dell’evoluzione del monachesimo nonché da una sua analisi anche sincronica, è che la vita in comunità non sia un elemento strettamente necessario alla ricerca monastica. Con ciò non intendo dire che non si debba analizzare il tema della vita comune e delle forme di comunità (anzi, è vero proprio il contrario!), ma che lo si debba fare separando in una certa misura la questione da quella della ricerca monastica in senso stretto.
Sul secondo tema, quello della comunità, ho già formulato varie ipotesi nella serie di articoli che ho pubblicato sul mio blog e in parte su Rocca nel 2021, che ho raccolto in un e-book gratuito intitolato Insieme altrimenti. Nell’opera a cui sto lavorando andrò comunque oltre, cercando di sviscerare tutti i temi problematici collegati alle comunità religiose, dalla sacralizzazione dell’autorità (radice della maggior parte delle storture e delle disumanità vissute in seno alla vita religiosa e nelle chiese in generale), alla gestione dei rapporti umani e del potere, fino al rapporto tra potere e disciplina della sessualità.
Sul primo intendo dare vita a una nuova serie di articoli, che vedranno la luce sempre su Rocca a partire dal gennaio del 2022 e che cercheranno di spiegare per quali ragioni la fondamentale ricerca monastica vada salvaguardata e resa accessibile a tutti, senza confinarla in nessuna specifica “forma di vita” religiosa.
Attorno all’intero itinerario, promuoverò direttamente seminari tramite il mio blog e le mie pagine, e parteciperò a seminari che non mancherò di segnalare (il primo, importantissimo, organizzato grazie a Marco Marzano dall’Università di Bergamo, a cui siete tutti invitati il 24 novembre alle ore 16).
In viaggio, dunque, e come dice uno dei protagonisti di Nomadland, “I’ll see you down the road” (ci incontreremo lungo il cammino)!
Grazie Riccardo per la continua e approfondita condivisione del tuo percorso di riflessione sulla vita monastica. Un pregio particolare dei tuoi scritti è la contestualizzazione delle fonti su cui poi innesti le tue considerazioni. Molto interessante, inoltre, la definizione che hai ripreso da Selene: monachesimo è dare forma alla vita. Tale prospettiva permette di desacralizzare la prassi del monachesimo per comprenderne la reale portata antropologica e per molti versi universale, oltre/attraverso le forme specifiche che ha assunto nel tempo e nei diversi contesti sociali. Questa è la medesima considerazione che lessi tra le righe di un libricino (che forse anche tu hai avuto tra le mani) di Edward Conze “Buddhism: Its Essence and Development”, nella traduzione di Mario Tassoni (1955, Mondadori) e nelle conferenze e scritti di Mauricio Yushin Marassi, ch’ebbi occasione d’ascoltare a Bose. In altre culture, come per esempio in alcune vie del buddhismo, il monachesimo mi pare possa essere considerato (in ben altra e più accettabile forma) il ruolo di quello che in occidente è il servizio militare: un periodo di formazione e igiene di vita, per apprendere il “sé in relazione”. Una “istituzione” il cui ruolo diventa cruciale nella fase di “adulting” (in cui i riferimenti e le “istruzioni”, oltre le soglie della “gioventù”, si rarefanno). O, per dirla in forma più classica: “diventare pienamente umani” (frase che potrei aver effettivamente ascoltato da Enzo). See you down the road!
Caro Davide, grazie a te per il riscontro e per il confronto, sempre molto costruttivo, che offri alle mie riflessioni. Ovviamente non sto scoprendo l’acqua calda, ma ritengo necessario esprimere concetti che, paradossalmente, erano più vivi nelle nostre chiese 30-40 anni fa rispetto ad oggi. In mezzo c’è stata l’epoca della “nuova evangelizzazione” con la connessa epopea dei movimenti, accanto a quello che ritengo un progressivo smarrimento delle traiettorie conciliari. Non che il Concilio sia stato in tutto così rivoluzionario (anzi, in taluni aspetti fondamentali come l’ecclesiologia e il clericalismo, ha prodotto pagine decisamente problematiche), ma aveva comunque cambiato registro nel linguaggio ecclesiale (rendendolo molto più aperto al mondo e alle sue ricerche) e abbozzato alcune traiettorie passibili di ulteriori e significativi sviluppi. Realtà come Bose, al di là dei loro eventuali problemi strutturali, avevano dato vita a spazi vitali di incontro e di confronto col mondo, ai confini della fede. Ora si rischia, con la crisi della vita religiosa, di buttare via il bambino con l’acqua sporca, dimenticando molte cose, mancando di discernimeno umano e cristiano. Credo sia il momento del coraggio, della creazione di reti di pensiero che aiutino, ancora una volta, a riprendere altrimenti alcune cose fondamentali. E a superarne altre, che forse così essenziali non sono.
Caro Riccardo, vorrei scrivere su questo tuo spazio personalizzatto il mio commetno al tuo bel libro BOSE LA TRACCIA DI VANGELO. Mi piacerebbe condividerlo con te e con i tuoi lettori. Grazie.
Caro Carlo, sentiti pienamente libero di farlo: devi solo aggiungerlo ai commenti. Buon anno!
“BOSE LA TRACCIA DEL VANGELO”, DI RICCARDO LARINI: COMMENTO E RIFLESSIONI DI UN LETTORE, CARLO CASTELLINI.
Non è un libro che si può leggere con facilità, in pochi pomeriggi, anche se i contenuti sono chiari e le parole scelte con ricercatezza lessicale, tipica di un ricercatore raffinato abituato a sottigliezze linguistiche e di elevata erudizione storica e documentaria. Ma anche per le intenzioni che lo animano: il desiderio cioè di portare un piccolo mattone (per me significativo), alla ricostruzione dei fatti necessari per la comprensione di una storia più condivisa e meno frammentata.
“BOSE LA TRACCIA DI VANGELO”.
Vuole raccontare la storia di un piccolo gruppo di giovani, uomini e donne, che sono alla ricerca di uno stile di vita da interpretare, da proporre in tempo di rivoluzioni sociali, politiche, religiose per rispondere alla ricerca di senso nella vita, nella storia dell’uomo e della chiesa, (periodo del Sessantotto e attese e speranze postconciliari), che trovano una risposta nella costruzione di un monastero quello di Bose, di cui Enzo Bianchi è stato il fondatore e promotore carismatico.
PERCHE’ MI E’ PIACIUTO QUESTO LIBRO?
Per la sua chiarezza espositiva;
perché l’Autore si mostra persona appassionata, preparata ed erudita in grado di rispondere alle domande che tanti lettori e lettrici si sono posti, sia prima ma anche dopo la data del 13 maggio 2020; quando il Segretario di Stato Pietro Parolin ha emesso nei confronti della comunità di Bose un decreto singolare approvato in forma specifica da papa Francesco, che ha lasciato esterrefatte moltissime persone.
LO SCRIVENTE E L’AUTORE DEL LIBRO.
Per le vicende del Monastero di Bose, (raccontate con atteggiamento onesto, documentato e in parte distaccato; poiché l’Autore Riccardo Larini è stato per ben 11 anni monaco a tutti gli effetti della comunità, é quindi in grado di narrare, in maniera oggettiva, cioè “sine ira et studio”, gli episodi più significativi, fino alla rottura psicologica e anche giuridica di cui si parla.
Non solo: ma Riccardo Larini è stato un dei più stretti collaboratori del Frate fondatore di Bose, Enzo Bianchi, e quindi in grado di conoscere la persona, il pensiero e anche l’evoluzione della storia specifica di questa comunità monastica. Tutto questo però non vuole sacralizzare la persona, di cui l’Autore non vuole definirsi “portavoce”.
LE MIE RIFLESSIONI SUL LIBRO.
Il sottoscritto, cioè l’estensore di queste note, non ha mai visitato il monastero di Bose, però ha seguito la sua storia, ha letto gli scritti di alcuni monaci e ha, in comune con l’autore, l’esperienza di vita comunitaria di almeno 16 anni, vissuti nelle case di formazione religiosa dei Missionari Comboniani, che mi hanno educato agli studi classici, liceali e universitari, alla conoscenza degli argomenti filosofici e teologici, in lunghi anni di studio.
Quindi si potrebbe dire possiedo una conoscenza “analogica” (simile), delle esperienze significative della comunità monastica di Bose, avendo avuto in comune dei tratti significativi vissuti nelle regole, nella liturgia, nel silenzio, nello studio, della cultura filosofica e teologica, che sono anche, aspetti peculiari, della impostazione culturale e spirituale, monastica di Bose.
LA STORIA DEI “TRE FRATI RIBELLI” DI M. RAYMOND CI AIUTA A CAPIRE LA STORIA DI BOSE?
Mentre procedevo in questi giorni nella lettura del libro-do cumento di RICCARDO LARINI, ho pensato di rivedere la storia e l’avventura dei fondatori dei “monaci bianchi” di M. RAYMOND: questo monaco trappista dell’abazia di Nostra Signora del Getzemani del Kentucky, (Stati Uniti), è riuscito a scrivere una storia coinvolgente degli uomini che hanno fondato l’ordine monastico cistercense. Il libro di Raymond permette di gettare uno sguardo all’interno di quel mondo, in particolare nei secoli XI e XII. Ma perchè questa lettura? Perché l’Autore di “Bose la traccia del Vangelo”, dedica non poche note, sparse qua e là in maniera diffusa, alla storia di vari monasteri del passato, ai loro protagonisti, e questo mi ha incuriosito. Ed ho voluto saperne di più. E dirò che la lettura mi è servita. Perchè dopo attenta consultazione, mi sono accorto che le storie di ROBERTO DI MOLESME, fedele e ribelle; di ALBERICO, umile e radicale; e di STEFANO HARDING, razionalista e radicale, (fondatori e protagonisti della vita monastica di Citeaux in Borgogna), fanno comprendere (fatte le debite differenze), molti aspetti delle scelte peculiari operate da Enzo Bianchi e gli altri monaci e monache.
IL TESORO DI BOSE: CHE COS’E’?
Un altro aspetto che considero positivo, è che viene fornito un quadro di riferimento generale costruito dai monaci della comunità, e dalle loro testimonianze, perché anche il lettore e le lettrici che non hanno mai fatto visita a Bose, possano avere in mano elementi sufficienti per formulare un loro pensiero critico personale, a conferma o smentita delle convinzioni maturate col tempo.
Infine l’Autore non si mostra pessimista: pensa vivamente che dopo questa rottura, i fratelli monaci e le sorelle monache, possano tornare a cercare e ricreare quel clima di dialogo e riconciliazione, umano, psicologico, e liturgico, incentrato sulla conoscenza della Parola del Vangelo, che è stato il punto forza di questa comunità, la cui testimonianza è stata motivo di esempio, ammirazione e stima di tanti visitatori, per i quali questi monaci e monache, hanno favorito attrazione e condivisione di momenti qualificanti di vita comunitaria e tante altre cose.
DOMANDA DAL PUBBLICO E RISPOSTA DELL’AUTORE.
Per questo, in una pubblica presentazione del suo libro nella città di Torino, una collega di università di Riccardo Larini, certa Giovanna Marsetti, augurava al vecchio collega, (conosciuto a Pavia mentre si laureava in Fisica, che lei testimonia di conoscere bene), di trovare la forza e il coraggio di ritornare (l’Autore vive e lavora in Estonia, nella città capitale di Tallinn), e di riprendere a tutti i costi il dialogo, di riannodare i fili del confronto e della fraternità. Altrimenti tante delle parole dette e scritte, vanno tutte in fumo con il “tesoro di Bose”
Risposta. Penso che tanti abbiano pensato, allo stesso modo della collega universitaria, e tanti altri si sarebbero augurati che non si fosse arrivati fino alla rottura. Come ha risposto l’Autore? Ha risposto in maniera altrettanto calda e umana. Dicendo chiaramente e amaramente che lui è stato caldamente invitato ad allontanarsi da Bose dal nuovo priore Luciano Manicardi, e a non farsi più vedere. “Rebus sic stantibus” (stando così le cose) secondo Riccardo Larini tutto è ancora bloccato.
Per questo motivo, l’Autore e scrittore estone, (ora sposato e con figli), si augura che il suo scritto, porti sollievo e chiarezza anche per alcuni amici che sono rimasti, e per quelli che se ne sono andati, (con i quali lui è rimasto in contatto), ma anche l’augurio che presto le divisioni e i contrasti (poiché si sono perduti i “freni inibitori”, che hanno condotto alla rottura), possano trovare nuove vie del dialogo e della riconciliazione; perché il “tesoro di Bose” possa essere di nuovo condiviso, da tutti, monaci, monache, laici e autorità vaticane. (Carlo Castellini)
(P.S. =Per tirannia di spazio mi fermo qui. Vi sono ancora tante altre domande che vorrei formulare all’Autore; che vorrei affidare ad una intervista-dialogo con Riccardo, (di cui condivido il pensiero e la sua autonomia di giudizio), se troverà il tempo e la voglia di concedermela. Grazie!).
Grazie per la valorizzazione del mio contributo. Piccola provocazione sul titolo: “La traccia del vangelo”, mi va bene, perchè è quello che ha vissuto l’Autore. E se qualcuno avesse proposto:”UNA TRACCIA DI VANGELO”? Magari meno determinativo però più allargato ad altre ipotetiche tracce diverse da Bose……!. Comunque grazie,le riflessioni sono tante e di alta qualità. Tornerò più avanti sul concetto di “laicità” del monachesimo che è un altro grande pilastro su cui ho sorvolato per non essere troppo lungo. Restiamo uniti…nella speranza.
Come dicono gli inglesi: “Point taken”. In realtà il titolo voleva per l’appunto spiegare come dell’unica freccia del vangelo si può essere al massimo tracce. Giustamente, “una traccia”.