In uno dei miei contributi precedenti, parlando delle origini dell’anelito monastico ho ricordato come fin dai tempi antichi vi siano state persone che per indole e per scelta, o più semplicemente perché costrette a ciò da circostanze esterne, hanno compreso che vivendo appartate, lontane dalle regole comuni della vita sociale, potevano intraprendere un cammino di trasformazione, o molto più semplicemente combattere i loro demoni interiori.

Non si tratta di un fenomeno puramente religioso. Basti pensare all’imperatore Adriano, il quale si fece costruire, all’interno della sua meravigliosa villa a Tivoli, il cosiddetto “teatro marittimo”, ovverosia uno spazio in cui ritirarsi per pensare e meditare tra un viaggio e l’altro. Oppure a Herman Hesse, che superati i quarant’anni si ritirò dalla città di Berna a Montagnola, piccola borgata nel sud della Svizzera in cui si dedicò intensamente per più di quarant’anni alla lettura, alla riflessione e alla scrittura dei suoi grandi capolavori. O ancora a Friedrich Nietzsche, che a soli trentaquattro anni, abbandonato l’insegnamento per motivi di salute, trovò pace e riposo solo in luoghi ameni e silenziosi come Sils Maria in estate e Rapallo in inverno, dove videro la luce alcune tra le sue idee più profonde.

Nel linguaggio giornalistico corrente si usa spesso (anche un po’ a sproposito) la locuzione castigliana buen retiro per alludere a un luogo appartato in cui riposare o incontrare in segreto la propria amante o il proprio amante. Il nome deriva dalla residenza secondaria fatta costruire a Madrid da Filippo IV di Spagna su progetto dell’architetto Alonso Carbonel nel XVII secolo.

Tutto questo ci ricorda che da sempre, e a prescindere dalla presenza o meno di una fede religiosa, un po’ tutte e tutti avvertiamo di quando in quando il desiderio di metterci in disparte per tempi più o meno lunghi in un luogo diverso, dove lasciar sedimentare esperienze ed emozioni, alla ricerca di uno sguardo più limpido su noi stessi e sulle cose.

Prendendo le distanze dalla quotidianità, mettendosi in disparte, in un luogo differente, lontani dal tran tran e dalle norme delle nostre vite, possiamo diventare capaci di guardare a tutto in modo diverso, nuovo, passando in rassegna e sottoponendo a critica e a rigenerazione anche le abitudini e i pensieri più scontati.

Nella distanza è possibile liberarsi dai condizionamenti del presente e guardare al quadro d’insieme delle nostre vite senza perdersi nei dettagli (che sono invece fondamentali quando si tratta di agire e cambiare concretamente il nostro mondo e quello in cui viviamo). Così facendo può diventare possibile un ritorno all’essenziale, che si ottiene solo quando ogni nostro gesto concreto viene inquadrato in una ricerca globale di senso e in una messa a fuoco dei valori che deliberatamente vogliamo sposare.

Una prima componente del ritirarsi in disparte è certamente un certo vuoto, quello che i latini chiamavano otium. Tutto ciò è umanamente importante non solo per dedicarsi al vacare Deo – fare spazio e dedicare tempo a Dio, ai valori fondanti e supremi delle nostre vite – da cui attingere senso ed energie, ma molto più semplicemente per riposare, componente essenziale di una vita sana sia dal punto di vista fisico sia psicologico e spirituale.

Ancora più importante è probabilmente ai nostri giorni la semplice riaffermazione dell’assoluta dignità del non far niente, contro ogni visione degli esseri umani che li vorrebbe significativi solo se sono resilienti, attivi e fondamentalmente “di successo”. L’apprezzamento dell’ozio, del “perdere tempo”, è anche fondamentale rinuncia a giudicare il mistero dell’altro, di ogni altro, a partire dal suo agire e manifestarsi esteriori.

Ma la distanza resa esemplare da monaci e monache, che in un certo senso vivono “addossati al deserto”, diventa particolarmente significativa per loro stessi e per quanti percorrono assieme a loro un tratto di cammino se da semplice fuga (che tra l’altro da un punto di vista psicologico potrebbe essere controproducente per non poche persone) o puro riposo diventa anche un porsi in un territorio di transizione, di confine, “liminale”.

Prendo a prestito l’espressione da chi l’ha resa famosa nel XX secolo, ovverosia il grande antropologo scozzese Victor Turner, per il quale a determinate condizioni la separazione può dar luogo a un reinserimento di chi la attua nella società con un ruolo ed energie nuovi. Quali sono tali condizioni? Come si dà luogo a una liminalità feconda?

Per Turner – che, ricordiamolo, sviluppò le proprie teorie a partire dagli studi compiuti sui rituali di alcuni villaggi africani – essenziale è dare vita, nel luogo e nel tempo della separazione, a una communitas, ovverosia a interazioni sociali sostanzialmente egualitarie, fondate su empatia e adattamento reciproci più che su regole e norme sociali. Così facendo, la “comunità” può diventare luogo in cui ciò che è vecchio e non funziona più può essere abbandonato, e il nuovo che può aiutare a vivere meglio e a tornare nella società con energie positive e costruttive riconosciuto, abbracciato e rafforzato.

Ancora una volta non va dimenticato che a volte la communitas dove si può vivere la liminalità può essere creata malgrado noi – in tempi di forte crisi come le guerre, o in luoghi di degrado come le periferie di alcune grandi città, o in molte altre situazioni che provocano una forte relativizzazione di strutture rigide e gerarchiche e possono favorire l’emergere di solidarietà, empatia e desiderio di ricostruzione. Ciò nonostante, uno dei casi emblematici di communitas è rappresentato da sempre, e pressoché in ogni cultura, dalle comunità religiose.

Non basta tuttavia il “desiderio monastico” a creare le condizioni di una separazione feconda, di una liminalità in cui abbandonare ciò che è sclerotizzato e che non consente uno sviluppo reale della vita – dello slancio vitale, avrebbe detto Henri Bergson – per abbracciare un vero progresso spirituale fecondo per noi e per il mondo in cui viviamo.

Si può infatti creare comunità, costruire pericolose “opzioni Benedetto” – dal titolo di un purtroppo celebre libro di Rod Dreher –, in cui la separazione monastica è funzionale a conservare valori e costumi che si ritiene siano messi in pericolo dalla società. Allora si rischia di fare come quei monaci che (nelle parole di un vecchio e saggio abate trappista francese) “non sapendo vivere nel presente, pensano di vivere nell’eternità”.

In simili esperienze si assiste inesorabilmente al contrario della communitas turneriana: strutture rigide, indottrinamento e inquadramento gerarchici che lasciano uno spazio minimo alla libertà e in cui l’empatia diventa facilmente un optional.

Molto più utile e autentico è il suggerimento del grande filosofo e drammaturgo romeno Lucian Blaga, per il quale un fattore decisivo dello sviluppo in senso vitale e aperto al cambiamento del sé e del mondo dell’attività monastica, è il cosiddetto “spazio mioritico” (da miorița, “pecorella” in romeno), una porzione di campagna (dunque marginale, di confine rispetto alla centralità dei centri urbani) posta attorno agli edifici monastici in cui libertà e creatività possono trovare tempo e modo di realizzarsi. Uno spazio di senso, di incontro e di pensiero, senza gerarchie o intenzioni stabilite a priori.

Detto altrimenti, perché la separazione monastica possa veramente dare luogo a forme di communitas feconde e liberanti sia per chi le abita stabilmente sia per quanti vi fanno sosta prendendo le distanze temporaneamente dal mondo, è fondamentale che la gerarchizzazione e i giochi di potere del mondo lascino spazio, in seno ai “recinti” monastici, alla scoperta dell’uguaglianza e la libertà di fondo di tutti e di ciascuno.

E probabilmente – ma tornerò a parlarne affrontando il tema della comunità monastica – a recinti che abbiano sempre una porta aperta, sia per i visitatori sia per chi ha deciso di vivere in maniera permanente al loro interno.