A prescindere dalle ragioni più profonde della loro scelta anacoretica, le prime monache e i primi monaci del deserto divennero presto, agli occhi dei loro contemporanei, dei veri propri esperti della ricerca di un principio radicale a partire dal quale dare forma alla vita – ciò che ho identificato come anelito monastico che interpella tutte e tutti – nonché dei passi necessari da intraprendere a tal fine.

Nei detti dei padri e della madri del deserto figurano spessissimo visitatori che chiedono a queste figure anacoretiche: “Abba/amma, dimmi una parola”. Per tale ragione si ritiene comunemente che le radici dell’accompagnamento spirituale nel cristianesimo risiedano in questa ricerca di parole sapienti presso chi si è mostrato “esperto” nel dare un senso e una forma auspicabili alla propria vita.

Sebbene nella cultura popolare abbondino fin dall’antichità e a ogni latitudine detti come “le parole volano, gli scritti rimangono” o “fatti, non parole!”, la comprensione radicale della parola nella cultura mediterranea è di tutt’altro tenore, come testimonia sia la religione ebraico-cristiana, sia quella islamica. Dio crea con la sua parola efficace, il davar ebraico, che è una realtà pesante come un macigno e generatrice di conseguenze profonde. La parola umana è dotata a sua volta di forza e impatto, impegna e rende responsabili. In tutta la cultura mediterranea, infatti (e non solo), a tutt’oggi gli accordi verbali sono ritenuti vincolanti dalle legislazioni civili.

La parola proferita entra nella mente di colui che la ascolta e dunque la accoglie, e contribuisce inesorabilmente al dialogo interiore della coscienza, generatore di orientamenti morali ed esistenziali. Il termine stesso coscienza sorse nella lingua greca antica a partire dall’espressione sýnoida emautṓ, “conoscere con sé stessi”, ed esprime l’idea che ogni essere umano è abitato da un dialogo generatore di senso e conoscenza, il cui strumento principe sono le parole, i lógoi con cui costruiamo i pensieri e li facciamo interagire tra loro.

La meditazione, nella tradizione ebraico-cristiana, raramente è intesa come uno sprofondare nel silenzio, ma è animata dalla parola (come nel caso della lectio divina), e sebbene possa condurre a un silenzio contemplativo, in cui qualcosa di estremamente chiaro si offre a una “visione” passiva e silenziosa, normalmente è un processo fondato sul rapporto tra le parole e la parola, alla ricerca di una Parola originaria e vitale.

Tornando al monachesimo del deserto, l’idea di fondo è che più che risposte alle domande rivolte loro, i monaci e le monache debbano “dare una parola” che attivi un meccanismo di trasformazione interiore e quindi anche esteriore in coloro che la accolgono. La condizione fondamentale perché la parola data sia “buona” è perciò duplice: da un lato è fondamentale che sia il più possibile riflesso del principio radicale, dello slancio vitale che sta alla radice della ricerca di realizzazione (di eudaimonia) di tutti e di ciascuno, che non sia frutto di puri personalismi o “preferenze personali” di colei o colui che la proferisce; dall’altro una simile parola non deve dipendere tanto o solamente da principi astratti, universali, ma deve cogliere il processo vitale e liberante già in atto nell’uditore, per aiutarne gli sviluppi.

Non sorprende perciò che sia possibile stabilire non pochi paralleli tra la sapienza del deserto e la psicologia e soprattutto la psicoanalisi moderne. Quest’ultima, infatti, più che una scienza è una tecnica di intervento sulle dinamiche interiori alla nostra mente basata sul dialogo e sulla parola.

Questo significa – ed è impossibile negarlo o evitarlo – che la parola è potere e ha un legame col potere che va costantemente analizzato e sviscerato. La parola può guarire o assestare colpi mortali, consolare o umiliare, mettere in moto meccanismi costruttivi o deleteri. È perciò fondamentale identificare i problemi più seri collegati all'(ab)uso della parola nell’accompagnamento spirituale di coloro a cui viene rivolta. Qui ne indicherò due, assieme a una sorta di “basso continuo negativo” che è alla radice di molti usi inadeguati e troppe sofferenze inferte oggi nella vita religiosa tramite un errato ministero della “parola di accompagnamento”. E cercherò di concludere questo contributo mettendo in rilievo quanto sia comunque delicato qualsiasi ministero della parola di accompagnamento spirituale.

Il primo problema sorge immancabilmente ogni volta che si enfatizza l’obbedienza come valore “spirituale” fondamentale. In contesti come quelli della vita religiosa cristiana non si può ovviamente fare a meno di affrontare il tema dell’obbedienza, radicato nella rivelazione biblica (ma ciò vale anche nel contesto islamico, dove la sottomissione a Dio è la radice della religiosità). La stessa obbedienza dovuta a Dio, però, nelle Scritture ebraico-cristiane non è mai cieca, fin dal principio: l’uomo e la donna sono creati liberi e chiamati ad accogliere liberamente la parola che Dio rivolge loro. Inoltre – in particolare nel cristianesimo – l’obbedienza della fede è tale solo se si manifesta nella realizzazione del comandamento dell’amore.

Lo Spirito parla allo spirito di ciascuno, e non vi è traccia nella Bibbia ebraica e in quella cristiana del concetto di “obbedienza terapeutica”, ovverosia dell’utilità di obbedire alla parola di altri esseri umani per poter in qualche misura essere certi di fare la volontà di Dio e non la propria. Né vi è traccia (salvo, con tratti comunque da definire con grande cautela, nel profetismo) dell’idea che un discepolato nel quale ci si sottomette a un maestro/una maestra sia un modo ineludibile per imparare a discernere la qualità dei pensieri che abitano nei nostri cuori, ovverosia le ispirazioni che possono condurci alla vita o alla morte.

Inoltre, il pensiero moderno ha sancito la fondamentale autonomia della ragione e della coscienza individuali, e cercare di sostituire – perfino in contesti religiosi – l’autonoma ricerca di Dio e della sua volontà (oltre alla ricerca più “laica” della via che porti all’eudaimonia personale di ciascuna e di ciascuno) con una morale e una via spirituale eteronome ed eterodirette, è pressoché impossibile, nonché fonte di inevitabili ferite e traumi dalle conseguenze molto pericolose per chi li subisce, o quanto meno di infantilizzazione spirituale e umana.

Il secondo problema emerge laddove la figura dell’accompagnatore spirituale si sovrappone (a mio avviso indebitamente) a quella di chi detiene il governo di una struttura comunitaria. Il governo e il potere necessario per esercitarlo (sempre comunque limitato in contesti umani!) sono strutture fondamentali della convivenza umana, da sottoporre costantemente a revisioni e che dipendono anche dalle sensibilità delle diverse epoche. La parola dell’accompagnatore, invece, è una realtà che in un modo o nell’altro bussa alla porta dei recessi più intimi di colei e colui che la ascolta e la accoglie, e non dovrebbe avere mai una funzione di “direzione” o men che meno di coercizione, per quanto blanda, soprattutto (ma non solo…) di un adulto.

In terzo luogo vi è il “basso continuo” di cui ho parlato più volte nei miei scritti e che ho citato nel mio contributo precedente sul monachesimo, rappresentato dalla sacralizzazione dell’autorità religiosa, sia di chi governa, sia di chi fornisce una parola di accompagnamento spirituale. L’indebita reintroduzione di principi di mediazione del sacro, estranei al pensiero di Gesù di Nazareth e del cristianesimo primitivo, funge infatti costantemente da catalizzatore e amplificatore dei due problemi che ho citato.

Infine, anche laddove non si riconosca a nessuna figura un’autorità sacrale o una parola a priori decisiva, rimane il fatto che le parole di “consiglio” (spirituale e non solo!) sono e restano inesorabilmente strumenti potenti e dotati di potere, da usare con enorme cautela anche in semplici rapporti di amicizia.

Sulla scorta di tutte queste considerazioni, perciò, nel prossimo contributo cercherò di suggerire alcuni itinerari di guarigione della… parola di guarigione!