Come sa chi è abituato a leggermi, di solito non mi butto a capofitto nei temi del momento, salvo non tocchino aspetti della vita e della cultura su cui mi interrogo da tempo. Senza emettere facili giudizi su chi invece opera in tal modo per mille motivi legittimi (come ad esempio i professionisti della cronaca o dell’informazione), per me si tratta di un’esigenza di distanza, che mi consente di riflettere, di pensare dandomi il tempo necessario. Non per rinunciare alle emozioni o al coinvolgimento, ma per compaginare queste dimensioni con altre componenti della mia interiorità, che mi sono altrettanto care e che reputo importanti.

Prima della ridefinizione del Ministero dell’Istruzione in “Ministero dell’Istruzione e del Merito”, pensavo da tempo di dedicare alla categoria di meritocrazia una critica altrettanto profonda e viscerale di quella che avevo riservato alla resilienza in uno dei miei post più letti degli ultimi due anni.

Ho tardato un paio di settimane a farlo, tuttavia, per non essere inglobato nelle polarizzazioni della rete, anche perché – come spesso scelgo di fare – sono molto più disturbato dall’uso distorto della parola “merito” e dalla sua esaltazione da parte di chi ha idee in teoria più vicine alle mie (sono socialdemocratico dunque mi sta profondamente a cuore la giustizia sociale) che non da quello che ne fanno eventualmente i sostenitori dell’attuale maggioranza di governo. Inoltre, nutro sempre la speranza di poter gettare qualche ponte di pensiero anche verso le “parti avverse”, ovverosia di poter dialogare con chi si ispira a valori in linea di principio molto diversi dai miei, alla ricerca di qualche nuova sintesi e base comune della convivenza civile.

La recente campagna elettorale di larga parte della sinistra italiana mi ha tuttavia talmente indispettito, da quasi imporre alla mia mente di riprendere la riflessione iniziata da lungo tempo su questi temi e condividerla, pur nella provvisorietà in cui si trova.

Vorrei partire – mi perdonino i non credenti, ma verrò presto anche ad argomentazioni molto più laiche – dalla questione religiosa.

In latino merere significa anzitutto “guadagnare, incassare, ottenere”. Mi pare come minimo curioso ricordare come tra i suoi derivati vi sia pure il termine “meretrice” oltre ai nostri “merito” e “meritare”, ma non è su questo che voglio soffermarmi (per quanto sia interessante…).

Una trentina d’anni fa, fui coinvolto a più riprese nella traduzione dei più antichi riti eucaristici delle chiese cristiane, in particolare di quelle latine e greche (non ho il piacere di conoscere altre lingue antiche molto importanti della cristianità, come ad esempio il copto, il siriaco, l’armeno o il georgiano). Un problema tipico con cui fui alle prese è ben esemplificato da questa antica colletta, tuttora in uso nel rito romano:

Omnipotens sempiterne Deus,

da nobis fidei, spei et caritatis augmentum,

et, ut mereamur assequi quod promittis,

fac nos amare quod pæcipis

che oggi viene ufficialmente tradotta così in italiano:

Dio onnipotente ed eterno,

accresci in noi la fede, la speranza e la carità,

e perché possiamo ottenere ciò che prometti,

fa’ che amiamo ciò che comandi.

Se oggi ci siamo finalmente liberati in molte traduzioni liturgiche della categoria di merito, lo dobbiamo sicuramente ai Riformatori protestanti, i quali – su questo bisogna essere chiari e onesti – “salvarono” il Vangelo ricordando a tutti che alla radice della fede cristiana non c’è l’idea di una salvezza che si conquista per “merito”, ma piuttosto ciò che san Paolo ricorda a tutti in Romani 5,8: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.

Il merito e il meritare di cui parlano le antiche preghiere (e l’intera tradizione primitiva del cristianesimo) è perciò un ottenere ciò che Dio stesso offre gratuitamente, mediante la fede, l’amore e la speranza che egli stesso origina e fa crescere.

Anche la categoria di “giustizia”, addotta a riprova delle teorie del “merito” sia cristiane sia laiche, in realtà nel mondo antico ha basi quanto meno ambivalenti. Sempre per riferirci al latino, ius-titia, infatti, significa la condizione di essere iustus, ovverosia un essere umano dotato di ius, che ha possibili legami con radici sanscrite come yoh (salute, benessere) e yos (vita). Sia in sanscrito sia in latino, il giusto è colui che è dotato della necessaria bussola per vivere rettamente e vivere bene. Ma tale bussola, quasi sempre nell’antichità (il che non vuol dire che le cose stiano necessariamente così, ci mancherebbe!), è una dote che si riceve e che precede più che essere un merito o una conquista del tutto personali.

Nel cristianesimo la cosa è evidente, e sono stati ancora una volta i protestanti a ricordarlo con fermezza chiarendo che la giustizia è un dono: siamo resi giusti dall’amore misericordioso di Dio, non al termine di un cammino di conquista della giustizia con le sole nostre forze.

Io non so se credo in un essere supremo nel senso di qualsivoglia catechismo, tuttavia mi sento in qualche misura “cristiano” proprio perché percepisco che nella nostra estrema fragilità che rasenta il nulla, che nella nostra effimerità che si copre talvolta in maniera quasi ridicola di vanto e gloria, siamo retti da qualcosa di invisibile e di indicibile che può dare il senso al non senso, che può raddrizzare ogni nostra stortura, ogni nostro fallimento.

Il mio benessere, le mia realizzazione – quella eudaimonia a cui ho dedicato uno dei miei articoli di quest’anno sul valore antropologico universale del monachesimo – quale che sia, e diversa tanto quanto sono diverse le eudaimonie di ciascuno, si radica qui, in questo sentirmi sorretto al di là di me stesso, a prescindere dall’esistenza o meno di un dio, a prescindere dalla mia giustizia o “autogiustificazione”.

Prendendo spunto laicamente dalle antiche preghiere cristiane latine, dunque, meritare qualcosa significa guadagnare e incassare qualcosa che però, in radice, non proviene da noi, o come minimo che non dipende mai unicamente da noi. Ciò comporta indubbiamente uno scambio: si fa e si riceve, ma uno scambio senza alcun automatismo assoluto o legge inesorabile.

E qui divento autobiografico, non per pornografia o esibizionismo spirituali, ma perché sono alla ricerca di risonanze con le esperienze altrui, e un modo talvolta efficace di farlo è condividere la propria.

La mia vita è stata un continuo scambio. Del resto noi tutte e noi tutti scambiamo continuamente materia col mondo circostante, metabolizziamo e restituiamo parole, idee e pensieri. Diventa perciò arduo, se non praticamente impossibile, stabilire quanto siamo in credito o in debito con gli altri e con la vita.

Io sono cresciuto in una famiglia monoreddito in Italia (madre insegnante e due figli a carico, padre assente), collocabile in base ai parametri degli istituti di ricerca odierni nel 10% delle famiglie più ricche nel mondo. Entrambi i miei genitori erano laureati. Le conversazioni, a casa, erano dunque sempre interessanti e stimolanti, e studiare e imparare era pressoché naturale. Dalla mia famiglia ho perciò assorbito fin dall’infanzia apertura al mondo e passione per la lettura e per la conoscenza.

Anche geneticamente mi è andata piuttosto bene: fino ad oggi ho goduto di buona salute e sono dotato di un cervello che pare funzionare abbastanza bene in diverse circostanze, dallo studio al lavoro. Grazie a questo “non merito” sono riuscito a laurearmi con il massimo dei voti senza praticamente frequentare l’università e ho potuto pure prendermi il lusso di cambiare lavoro e vita a più riprese, riuscendo sempre a cavarmela tutto sommato senza grandi intoppi (soprattutto guardando a tantissima gente che soffre e vive di stenti malgrado sforzi immani).

Oggi vivo in una famiglia bireddito senza figli in Estonia (Unione Europea), il che mi colloca pressoché automaticamente nel 2-3% di famiglie più ricche al mondo, e questo malgrado il “lusso” che mi sono preso di passare 11 anni in monastero rinunciando a corposi contributi previdenziali e a una sicurezza in termini di pensione che molti altri “occidentali” hanno.

Se uno guarda alla mia biografia e al mio curriculum vitae più da vicino (basta andare su qualcuno dei miei profili pubblici di lavoro), potrebbe pensare che io sia uno che ha “meritato” molto: a sedici anni ho passato un primo concorso per studiare in maniera totalmente gratuita in una prestigiosa scuola internazionale, quindi ho sempre avuto borse di studio che hanno coperto interamente ogni mia spesa – vitto e alloggio compresi – nelle università che ho frequentato. A Pavia ero in uno dei più antichi e prestigiosi “collegi di merito” (sic!) italiani. Sono poi stato a Cambridge per quattro anni quando avevo ormai 38 anni.

Perché racconto tutto ciò? Gran parte di queste cose le ho “conquistate” per la buona sorte che mi ha baciato in fronte fin dalla nascita o lungo la vita, e anzi sento spesso di aver restituito molto meno alla vita di quanto ho ricevuto in maniera del tutto fortunata e gratuita.

Per contro, in altri ambiti, ho compiuto grandi sforzi e fatto cose che non hanno prodotto nulla di significativo (o quanto meno nulla di eclatante, di mondanamente visibile) o di “meritevole”.

Infine, pur senza abbandonarmi a grandi crimini o attività particolarmente immenzionabili, in alcuni periodi anche lunghi della mia vita ho speso moltissima parte del mio tempo in attività del tutto futili, “perdendo” quantità incredibili di tempo. E oggi dedico ancora molta parte della mia vita all’ozio, senza neppure pormi in esso obiettivi di alto profilo.

Perché questa narrazione? Per dire che, onestamente, non ho la minima idea di dove risiedano davvero i miei presunti meriti (ho invece qualche sospetto, che non condivido per pudore, riguardo ai miei “demeriti”). Più ancora, però, vorrei dire che sono giunto al punto di dire che non me ne importa più nulla di autogiudicarmi o paragonarmi agli altri alla ricerca di graduatorie di merito o di una qualsivoglia valutazione della mia vita. Che cosa mi importa, allora, che cosa mi fa vivere?

Nel mio pezzo sulla resilienza già l’ho detto: non esiste alcun obbligo morale di vivere. Non abbiamo scelto noi di venire al mondo, né abbiamo scelto moltissime delle cose che ci hanno reso quello che siamo. Espletati alcuni obblighi imprescindibili verso la società come il rispetto delle leggi (giuste) e il pagamento delle tasse, e ferma restando la responsabilità che dobbiamo avere verso coloro che abbiamo deciso di amare, non abbiamo neppure alcun obbligo di crescere in ricchezza e in sapienza (al contrario di ciò che predicano molti commentatori moraleggianti quando spiegano senza comprenderla in radice la parabola evangelica dei talenti).

La frustrazione, la non accettazione dei limiti e della morte, ci possono portare a cercare di esorcizzare il tutto in mille modi differenti. Molti sono umani e leciti (compresi i famigerati rave party), e non mi permetto assolutamente di giudicarli. Se però costruiamo il nostro mondo sulla competizione, sul “merito” inteso come la pretesa di quanto ci sarebbe dovuto (quasi sempre a nostro giudizio), sulla volontà di potenza, sul crederci capaci di essere giudici assoluti della nostra e delle altrui vite, ci imbarchiamo in un’avventura molto difficile e quasi inesorabilmente frustrante. E, paradossalmente, generatrice in maniera potenziale di molta ingiustizia anche per gli altri.

Se invece prendiamo atto del mistero in fondo ingiudicabile di ogni singola vita umana – compresa la nostra – possiamo mantenere viva quella capacità di pensare, di aprirci in continuazione a nuove esperienze, nuove elaborazioni, nuove sintesi (sempre provvisorie). E possiamo restare capaci di comunicare con gli altri, di stabilire legami.

Per oltre ottant’anni l’Università di Harvard ha portato avanti un progetto di ricerca molto ambizioso sulla realizzazione della vita negli adulti. Il principale risultato delle ricerche di quel prestigiosissimo ateneo americano è stato che molto più dei soldi, del potere e del successo, vivono a lungo e bene coloro che mantengono una rete di rapporti umani solidi.

Ogni realizzazione, ogni eudaimonia è diversa, ma forse c’è una ricetta che le accomuna tutte: imparare a non giocare la vita sul potere e sul confronto con gli altri, ma sulla qualità delle relazioni.

Personalmente ho deciso di dedicarmi al mondo dell’educazione piuttosto che a quello della ricerca o dell’imprenditoria proprio per questo: non per essere un modello (non potrei esserlo di certo, e credo che anche l’esemplarità possa essere spesso una trappola, come ha insegnato René Girard …), ma per cercare di agevolare esperienze di vita negli altri e goderne insieme a loro. Ed essere un po’ balsamo delle loro ferite.

Accettando gli altri si accetta anche sé stessi. E si vive molto meglio, più a lungo e più sereni, che in un mondo fatto di competizione e meritocrazia.