Riprendono dopo la pausa estiva i miei contributi sul senso della vita monastica per la rivista Rocca. In questo e nel prossimo episodio parlerò di esercizio della sessualità e senso del celibato monastico.

Nel contributo precedente ho evidenziato, parlando dei voti religiosi, il senso positivo dell’esercizio alla castità, come presa d’atto del fatto che la libido sessuale è fonte sia di vita sia di morte, ed è dunque bene imparare a conoscerla e a incanalarla in direzioni realmente umanizzanti. Per tale ragione, ad esempio, in tutte le civiltà esistono interdetti come quello dell’incesto, e nella stragrande maggioranza delle culture è emerso gradualmente un rigetto dell’esercizio della sessualità senza il consenso altrui.

L’ascesi monastica – e non solo quella di matrice cristiana – è perciò uno strumento molto utile per apprendere a conoscere se stessi e coloro che amiamo tramite un esercizio controllato della sessualità, per evitare di prevaricare sui diritti e le sensibilità altrui e giungere a vivere in pienezza la nostra umanità.

È però innegabile che, in ogni tempo e luogo, il problema posto dall’esistenza (e dalla difficoltà di gestione) degli istinti sessuali abbia portato spesso a sviluppare sospetti e addirittura forme di condanna verso la sessualità tout court. Ciò che è ignoto, non pienamente controllabile, infatti, se in alcuni suscita un interesse, un desiderio di esplorazione, in altri porta a generare forme di difesa che possono dar luogo a un disprezzo verso ciò di cui non si è padroni.

Il rapporto del cristianesimo con la sessualità non solo ha spesso finito per assecondare paure, sospetti e irrazionalità nei confronti di un esercizio sano della sessualità stessa, ma ha aggiunto a questo aspetto meraviglioso e complesso della vita umana ulteriori elementi di complicazione.

Con questo non alludo solamente alla visione paolina (e ancor più alla convinzione agostiniana) secondo cui esisterebbe una sorta di legame intrinseco tra sesso e peccato, ma anche all’interpretazione escatologica del celibato monastico, ovverosia all’idea che il monachesimo sarebbe celibatario quale testimonianza dell’imminenza del regno di Dio.

Come è noto, si tratta di un’interpretazione fondata su parole che molto verosimilmente sono state pronunciate dal Gesù storico ai propri discepoli: “Ci sono alcuni che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può comprendere, comprenda” (Mt 19,12).

Nell’ebraismo, chi veniva meno all’obbligo (morale, non letterale) di sposarsi era guardato con sospetto. Sicuramente l’astinenza dall’esercizio della sessualità era ritenuta possibile e addirittura auspicabile in momenti ben precisi della vita (ad esempio prima della battaglia o per accostarsi al divino), ma la scelta attiva di non sposarsi non era contemplata o favorita in alcun modo.

Gesù spiega una simile possibilità ai suoi in ragione della propria convinzione che il sopraggiungere della signoria di Dio sia ormai prossimo e che sia necessario vivere e testimoniare l’irrompere dell’eschaton nella storia.

È innegabile che, con simili affermazioni, il fondatore del cristianesimo abbia dischiuso la possibilità di un tale primato del Regno da rendere possibile e pensabile il non sposarsi, e addirittura il non esercitare attivamente la propria genitalità da parte di coloro che “possono comprendere”. Chi sono costoro? Le donne e gli uomini a cui è stato dato per grazia (dunque non tutti)? Chiunque sia realmente capace di comprendere tutta la portata del vangelo (dunque potenzialmente ogni discepola e ogni discepolo)?

Fatto sta che il celibato monastico cristiano affonda, in senso stretto, le proprie radici in queste parole e convinzioni, che vengono molto prima della teologia della “perfezione”. Quest’ultima, anzi, ne distorcerà in maniera rilevante il senso, confondendo la perfezione di una sequela radicale e di un radicale dono si se stessi che sono chiesti a tutti i discepoli e le discepole di Gesù, con una presunta “imperfezione” dell’esercizio attivo della sessualità che il fondatore del cristianesimo non ha mai sostenuto in alcun luogo.

Riguardo alla possibilità di un’astinenza “perenne” dall’esercizio attivo della sessualità e della genitalità, non credo sia possibile limitarsi, anche in un’ottica cristiana, a invocare la forza della grazia o la possibilità di un discernimento chiaro e inequivocabile della presenza o meno di una vocazione alla vita celibataria. Siamo tutte e tutti molto diversi gli uni dagli altri, e siamo inoltre esposti a cambiamenti profondi della nostra stessa identità nell’arco delle nostre stesse vite. Diventa dunque impossibile un giudizio certo, radicale, apodittico e a priori, ovverosia che non faccia i conti con la complessità dell’esistenza umana. E comunque, se mai un giudizio cristiano è possibile, lo può essere solo come giudizio della propria coscienza, sotto la sguardo di un dio che, per i cristiani, è radicalmente e fondamentalmente misericordioso.

Ciò che l’esperienza monastica (cristiana e non solo) può invece continuare a dare a ciascuno e a ciascuna di noi, a prescindere dall’orientamento religioso, è una serie di insegnamenti su come l’esercizio di tutte le grandi forze che abitano la nostra vita – e la sessualità ne fa sicuramente parte – vadano affrontate con sapienza, nonché regolate a padroneggiate nella misura del possibile, perché siano al servizio della nostra crescita e fioritura personale, e non ostacolino il nostro fiorire in umanità e, per certi versi, in serenità e felicità.

In una cosa il cristianesimo ha sicuramente visto bene: la sessualità è una grande forza, che non può essere affrontata solamente all’insegna del trionfo della libertà personale. Ma il cristianesimo stesso va liberato di tutto ciò che contribuisce a rendere la sua visione della sessualità inadeguata o addirittura mortifera, come ha ricordato di recente Selene Zorzi sulle pagine di Rocca: la tendenza a distinguere fino a separare anima e corpo, a ridurre la sessualità a genitalità e a collegare il piacere sessuale alla sola fecondità.

Ma non è tutto: come ha insegnato magistralmente Michel Foucault, uno dei più influenti filosofi e storici del XX secolo, ciò che percepiamo come “naturale” o “biologico” in materia di sessualità è in realtà il risultato di specifici discorsi storici e pratiche di potere. È perciò necessario identificare ogni possibile cortocircuito tra visione della sessualità e potere umano.

È quanto cercherò di fare nel prossimo contributo, in cui introdurrò gli altri due elementi decisivi (e potenzialmente distorsivi) della disciplina della sessualità nel cristianesimo: la vita comunitaria e il rapporto con il sacro.