Il caso vuole che nella mia serie di contributi dedicati all’attualità e il significato antropologico universale dell’esperienza monastica avessi previsto proprio per i primi mesi di quest’anno di affrontare il significato e l’utilità della presenza di guide spirituali nella vita religiosa. Tutto ciò proprio quando, in questi ultimi tempi, sono emersi ulteriori casi di comportamenti controversi, se non addirittura di abuso palese della propria posizione, da parte di “padri spirituali” molto noti, in particolare nell’alveo del cattolicesimo e soprattutto della vita religiosa.

Mi pare dunque necessario, alla ricerca della possibile utilità di ogni componente della vita monastica e di sue possibili revisioni più o meno profonde, affrontare con onestà i nodi problematici della questione “abusi”, che fondamentalmente – come vorrei mostrare – sono sempre in un modo o nell’altro abusi di “potere”, che portano a minare alla radice buona parte dei contributi che l’accompagnamento spirituale potrebbe fornire a chi è abitato da un anelito di tipo monastico.

Per farlo e per proporre soluzioni credibili, tenterò innanzitutto di rispondere ad alcuni interrogativi cruciali: è sempre esistito, nella vita religiosa, il bisogno di seguire delle guide religiose? Ci sono sempre state figure che si proponevano e/o venivano recepite come modelli di un’esperienza destinata non solamente a loro ma a molti altri? L’esigenza di accompagnamento, iniziazione, introduzione a determinate forme di vita va al di là della “religione”? Cosa c’è di sano e di malsano in tutto ciò? A tutte queste domande cercherò di iniziare a rispondere in questo articolo.

Come spesso accade, è il genio greco a dare le prime indicazioni utili a comprendere, sotto forma di mito, le nostre esperienze umane. Nella mitologia greca vi è infatti la figura di Mentore, l’itacese a cui Ulisse affida Telemaco prima di partire per Troia, che esercita una sorta di funzione genitoriale supplente in assenza del padre naturale. Omero narra addirittura che Atena stessa ne assunse le sembianze per sostenere Telemaco con la propria saggezza. Tutto questo ci ricorda, in radice, che abbiamo bisogno di saggezza, ovverosia di una serie di “competenze esistenziali” che ci consentano di vivere e di vivere bene (ancora una volta, avendo come orizzonte l’eudaimonia), e che in una certa misura la saggezza si impara anche tramite esperienze e “contaminazioni” con esperienze altrui.

La filosofia stessa, come hanno ricordato magistralmente Pierre Hadot e Michel Foucault, non era ritenuta dai greci una pura elucubrazione intellettuale, bensì un metodo cognitivo-esistenziale consistente nel vivere la logica, la fisica e l’etica, in virtù del quale si riteneva possibile praticare un cambiamento radicale dell’essere umano. Dunque la saggezza insegnata da Mentore/Atena si colloca in quest’alveo, che dalla mitologia è passato in seguito a esprimersi tramite la riflessione filosofica degli antichi.

Nel mondo delle religioni in senso più stretto, le prime tracce di idee analoghe risalgono al mondo variegato dell’induismo. Il guru, nelle antiche religioni dell’India, è colui che disperde l’oscurità e impartisce la dīkṣā (iniziazione/consacrazione religiosa). Fin da tempi molto antichi vi furono perciò correnti di pensiero che ritennero fondamentale la presenza di guide umane per dissipare le tenebre, ovverosia tutto ciò che impedisce di vedere il mondo nella giusta luce e di vivere in esso trovandovi senso e compimento. Nel caso specifico dell’induismo, trapela inoltre l’idea che sia necessaria la presenza di una figura che inizi o addirittura consacri e trasferisca una qualche forza spirituale (a seconda delle scuole di pensiero) a chi desidera avviarsi alla pratica della vita religiosa o più in generale spirituale.

Una certa discontinuità con questo modello è rappresentata dal buddhismo. La stessa storia di Siddhārta Gautama indica come l’essenziale, in fin dei conti, abiti già in ciascuna e ciascuno di noi. Siddharta, infatti, pur avendo cercato nella propria vita la saggezza necessaria al seguito degli asceti del suo tempo, alla fine scopre dentro di sé, non per merito o indicazione altrui, la bodhi (l’illuminazione), la vocazione universale a diventare buddha, “illuminato”, che abita ogni essere umano.

Nonostante questo, e malgrado nelle “quattro verità fondamentali” del buddhismo non vi sia traccia della necessità di essere accompagnati da altri, di iniziazioni “sacre” o di trasferimenti di forze spirituali, anche nella tradizione buddhista emersero molto presto correnti di pensiero che prevedevano la presenza di guide spirituali. A tutt’oggi, però, non si tratta di un elemento ritenuto realmente centrale in quella religione, malgrado il vivere per un certo tempo accanto a chi è “più avanti” nel cammino di illuminazione sia considerato in diverse sue correnti un’esperienza fortemente raccomandabile per tutti e non solo per chi desidera farsi monaca o monaco.

Trasferendoci più vicino a noi nel tempo e nello spazio, nelle religioni misteriche (come ad esempio i culti di Eleusi) esistevano delle figure dette ierofanti, cioè “mostratori del sacro”, i quali guidavano chi desiderava accostarsi ai misteri tramite un cammino di apprendistato che culminava con un rito di iniziazione in cui avveniva una sorta di trasferimento di potere e di status dalle guide ai neo-“consacrati”.

Nella religione ebraico-cristiana, l’idea di una qualche forza che abiterebbe in tutti e che andrebbe risvegliata mediante l’aiuto di una guida, o mutuata da quest’ultima tramite un discepolato e una ritualità sacrali, si è sviluppata in maniera diversa e decisamente più lenta, per nulla scontata.

Nelle scritture ebraiche la paternità/maternità spirituale non emerge, o quanto meno non lo fa mai con chiarezza. Ciò che affiora è piuttosto la possibilità della mediazione di alcune figure umane tra il popolo e il divino: Mosè e gli interpreti della legge mediano tra la volontà di Dio e Israele, mentre i sacerdoti lo fanno tra la sua presenza vivificante e al tempo stesso divorante (il sacro) e la realtà quotidiana del popolo.

Nel profetismo affiora l’idea di uno spirito che si impossesserebbe di alcuni e alcune in particolare, e che può essere trasmesso direttamente ai discepoli di costoro (tipico è il racconto di 2Re 2, in cui il trasferimento dello spirito da Elia al discepolo Eliseo è simboleggiato dal passaggio al secondo del mantello del primo). E non a caso sarà proprio al profetismo che si ispireranno diverse forme di vita religiosa per rivendicare il proprio stato ritenuto particolare.

Il cristianesimo delle origini sembrerebbe avere da principio spezzato questa necessità di mediazione, in virtù della scoperta di un sacerdozio universale e alla luce dell’affermazione fondamentale di 1Tim 2,5: “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù”. La stessa mediazione di gesti e persone in ordine alla ricezione dello Spirito – che “soffia dove vuole” (Gv 3,8) – non ha una valenza assoluta nel Nuovo Testamento.

Malgrado ciò, già sul finire dell’epoca neotestamentaria, il cristianesimo primitivo iniziò di nuovo a creare forme di mediazione dell’esperienza religiosa, non solo e non tanto per il governo umano delle comunità, ma gettando i semi della futura sacralizzazione dell’autorità anche nel cristianesimo, che pure sembrava essersi emancipato da una simile tendenza, molto umana ma decisamente stridente rispetto all’esperienza spirituale di Gesù stesso e dei suoi primi discepoli.

Sarà perciò necessario capire in che misura l’accompagnamento spirituale nella vita religiosa, sorto e sviluppatosi nei secoli a venire, sia un’esigenza umana e cristiana, e in quale misura sia invece frutto delle istanze di potere che abitano l’animo umano e della sacralizzazione del potere che è una delle maggiori tentazioni di qualsiasi religione. È quanto cercherò di chiarire nei prossimi contributi.